mercoledì 29 maggio 2013

Caso Fabiana, perché i calabresi non si indignano così anche dei boss?

Sul femminicidio e la storia di Fabiana la penso come "i daSud" e non certamente da oggi. La riflessione però trascende il caso specifico e le polemiche nate per i pezzi di Domenico Naso sul ilfattoquotidiano.it e di Francesca Chaouqui sul corriere.it.

Ricordo un'ondata di indignazione calabrese planetaria per delle frasi avventate e stupide di Antonello Venditti durante un concerto che ferirono l'onore dei calabresi, per un libro di Giorgio Bocca, per un pour parler da bar di Guido Crosetto. Magari a incazzarsi erano gli stessi che votavano un partito alleato della Lega Nord, che considerava il Mezzogiorno la latrina d'Italia, senza curarsene più di tanto.

Ora mi chiedo: ma che fine fa questa rabbia collettiva, questo senso di appartenenza e orgoglio identitario? Si disperde nei rivoli calcistici, nelle questioni di campanile e di cipiglio? No, perché, semplicisticamente, se ci si ritorcesse contro i malfattori e i gaglioffi della terra di Calabria, se ci fosse la stessa focosa levata di scudi, magari dopo l'arresto di un mammasantissima come Pasquale Condello, forse si potrebbe vivere in una regione de-'ndranghetizzata.

Claudio Careri (@clacar1977)

lunedì 27 maggio 2013

Il calabrese che odia le donne

Premesso. Non mi iscrivo alla schiera dei calabresi miei connazionali che inforcano la lente del vittimismo più putrido.
Premesso che, d'altra parte, altri mi ascrivono fra le fila dei traditori della patria, in quanto emigrante e in quanto sparlante della sua terra natìa (basta fare un giro fra alcuni gruppi deliranti su facebook che amano attaccarmi, ma ognuno, si sa, ha i suoi divertimenti).
Ecco, premesso tutto questo, cari giornalisti, siete ancora caduti nel più bieco razzismo nei confronti della Calabria.

Il caso è quello della 16enne accoltellata e bruciata viva a Corigliano Calabro. Non passano nemmeno 24 ore e il Corriere della Sera, non Libero con le sue sparate o il Giornale con il suo populismo, pubblica la lettera di una calabrese (tu quoque...) partorita da una mente fuori dalla realtà. Fuori da ogni aggancio con il vissuto reale della Calabria.

Si ammazzano le donne in tutta Italia? Ma solo nel caso della Calabria ci si interroga sul maschilismo congenito della società. Con il sottinteso, manco tanto implicito, che la società calabrese peschi da un passato retrogrado e medioevale.

Donne vengono violentate, stuprate, attaccate, minacciate, colpite in tutta Italia? Ma solo nel caso della Calabria si sfornano analisi teoriche sulla natura sostanzialmente femminicida di quei popoli. Non mi sorprenderei che al prossimo omicidio, al prossimo caso, si rivalutassero gli studi di Lombroso.

Non cadrò nel qualunquismo di chi dice "poteva capitare dovunque". E specifico. No, il discorso deve essere impostato, oltre che sulla particolarità di ogni caso che sostanzialmente fa storia a sé, su una società, quella italiana, che non ha saputo e non sa accettare il ruolo della donna.

E, care donne, la colpa è anche vostra. Le vostre battaglie per la libertà del corpo si sono ridotte a svenderlo, questo corpo. E a usarlo, questo scopo. Anche da voi deve partire un'analisi di coscienza.







sabato 25 maggio 2013

Lo stato dell'arte ('ndranghetista) / E c'è anche il marito della Cucinotta

Settimana importante sul fronte della 'ndrangheta.

Milano. Condannato in Appello, dopo il rinvio della Cassazione, Salvatore Barbaro. Sentenza che definitivamente ammette la presenza di 'ndrangheta a Buccinasco. Altro risultato importante. Maurizio Luraghi potrebbe essere il primo imprenditore condannato per associazione a delinquere a non avere legami di sangue con la Calabria. Lui è milanesissimo. Ne scrive Gianni Barbacetto.

Calabria/Lombardia. Si chiama Sunrise l'ennesima operazione di polizia che dimostra, se ce ne fosse ancora bisogno, il legame 'ndranghetistico fra il Nord e la Calabria. Quattro milioni di beni sequestrati alla famiglia Mancuso di Vibo Valentia. Operazioni anche in Brianza. Colpito il boss di Giussano, Salvatore Mancuso, già in carcere. Ne scrive il Giorno.

Calabria/Roma. C'è di tutto nell'inchiesta Libra. Tutto quello che la 'ndrangheta è diventata e che molti faticano ancora a vedere. Ci sono i rapporti con la politica. Ci sono i collegamenti con la massoneria. Ci sono i boss che fanno direttamente da imprenditori. I Tripodi, famiglia potentissima del Vibonese, voleva mettere le mani su un appalto della videosorveglianza a Roma. E per farlo, avevano agganciato politici, impresari (fra cui il marito di Maria Grazia Cucinotta, non indagato). Sequestrati 40 milioni di euro, fra cui il bar del centro di Roma, La Dolve Vita. Ne scrive il Messaggero.

C'è o non c'è? No, per lui la 'ndrangheta non c'è. Peccato che lui, Cosimo, è figlio del boss della Piana Domenico Mico Alvaro. Al Processo Meta a Reggio Calabria il giovincello di belle speranze dice che della 'ndrangheta lui ha appreso dai giornali. (AdnKronos).

(@agoerre)


Addio Don Gallo

L'unico prete che avrebbe potuto farmi ridiventare cattolico è morto.

Addio Don.


http://video.repubblica.it/edizione/genova/diretta-genova-i-funerali-di-don-gallo/129456/127959

giovedì 23 maggio 2013

Ode a una calabrese per bene

Iaia Capogreco è una calabrese. E ha fatto del bene. Mostrando e dimostrando che non ci sono solo calabresi che si piangono addosso, che maledicono lo Stato che li ha impoveriti, i mass media che li denigrano e il destino cinico e baro che li ha impoveriti.

Iaia Capogreco è andata in tv, alle Iene, a rappresentare quei calabresi che emigrano, con il sorriso sulle labbra, la speranza negli occhi e il futuro fra i capelli. Come tanti suoi corregionali è andata via, lontana, per studiare, per lavorare, senza mai perdere la capacità di vedere le sofferenze degli altri, di capire che lì fuori c'è un mondo più grande della propria giovinezza e una speranza da offrire a chi offre rose spelacchiate.

Iaia Capogreco ha ribaltato parecchi cliché, ha infranto pregiudizi puzzolenti. Ha spiazzato. Ha gettato un ponte, lei con suo padre, a quei tanti Sud del mondo che in Calabria possono incontrarsi. E darsi forza. Perché no?

(@agoerre)

martedì 21 maggio 2013

Racconti da Via Padova / Personaggio numero due

Ascanio amava la birra.

Ma non amava via Padova. Non amava quella vita. E, se proprio doveva dirlo, non amava più sua moglie. Ma questo glielo dirà, un giorno. Ma stava zitto.

Il suo lavoro, beh. Il suo lavoro gli serviva a vivere, a togliersi qualche sfizio e a ingannare il tempo fra un rimpianto e una speranza. Chi vive sperando muore cagando, diceva il collega sulla volante impegnato in qualche discorso dei suoi. Certo, avrebbe voluto rispondergli Ascanio. Ma stava zitto.

Di notte via Padova, se è possibile, fa ancora più cagare, gli diceva il collega sulla volante. Anche Milano fa cagare, avrebbe risposto Ascanio, se avesse voluto rispondere. Ma stava zitto.

Erano nervosetti, giù in centrale. I politici avevano rotto il cazzo con 'sta storia dell'africano che ha ammazzato tre persone, bianche, brave e pure impegnate nel volontariato. Ci mancavano i volontari accoppati, pensava Ascanio giù in centrale. Ma stava zitto. E quando i politici rompono il cazzo, gli sbirri ai piani alti lo rompono agli sbirri ai piani bassi. Non che la cosa dispiacesse ad Ascanio. C'era libertà di menar le mani, i discorsi sulla polizia al servizio della gente tornavano per un po' nello scantinato della retorica in disuso e il sangue ricominciava a scorrere nelle vene dei ragazzi della Mobile. Ho proprio bisogno di menar le mani, avrebbe voluto dire Ascanio. Ma stava zitto.

Ho proprio bisogno di menar le mani, stava invece dicendo il collega sulla volante. E via Padova offre tanti spunti, se è per questo. Se spacchi i denti ai magrebini, il giorno dopo non avrai certo le interrogazioni in Comune e gli articoli incendiari sul Corriere della Sera. Quello che succede in via Padova, rimane in via Padova. Se succede fra le 11 di notte e le 3 del mattino non succede. Semplicemente. E se succede dopo la follia di un negro immigrato, beh, un ghigno di approvazione lo strappi pure al borghese benpensante dei circoli di sinistra.

Quei sudamericani lì, fermati. Ad Ascanio le prime parole del servizio di notte, di un mercoledì notte troppo timido per essere d'estate, uscirono di bocca di fronte al solito spaccio di prodotti sudamericani e sorpresero anche lui per la gravità e l'astio. Chiama rinforzi e scendi con me, manganello alla mano.

(twitter: @agoerre)

Qui il link per leggere la prima puntata

sabato 18 maggio 2013

Milano, 5 omicidi in 5 mesi. Altro che emergenza stranieri

Qualche giorno fa scrissi qui che Pisapia non poteva chiedere l'intervento dell'esercito. Sia per ragioni simboliche, perché significava la fine dell'idea (dell'illusione?) della sua diversità amministrativa, sia per ragioni pratiche, perché non è vero che Milano è insicura. Che cosa si dovrebbe fare in altri, ben più pericolosi territori, come la Locride e i cantieri Expo infiltrati dalla mafia?

Questo bell'articolo de Linkiesta.it ci spiega che cinque omicidi dall'inizio dell'anno a Milano non possono rappresentare un'emergenza.

(@agoerre)

venerdì 17 maggio 2013

Ndrangheta e politica, o si arrestano i colletti bianchi o lasciamo governare la 'ndragheta


Montebello, Siderno, Marina di Gioiosa Jonica, Gioiosa, Melito Porto Salvo, Reggio Calabria, ora San Luca. Il problema non è tanto lo scioglimento per mafia di un consiglio comunale, una consuetudine per questi luoghi, dove la democrazia è sospesa, lo Stato ha sovranità limitata o si infiltra nella criminalità organizzata, come diceva un superprefetto.

Il fatto è che non si interviene quasi mai sul sistema burocratico-amministrativo che fa sedimentare il sottobosco di complicità su cui attecchiscono le organizzazioni criminali. In una parola: si azzera la classe politica, mentre il telaio della macchina municipale rimane impunemente a galla, pronto a riciclarsi fino alla prossima operazione di polizia.

L'immobilismo e la conseguente paralisi amministrativa fa sì che la gran parte dei cittadini che non si schiera sia purtroppo portata a pensare che si stava meglio quando governava la "'ndrangheta".

Parabola significa che a queste condizioni lo scioglimento rischia di diventare un autogol. Basta chiedere al reggino medio, esasperato dalla condizione della raccolta dei rifiuti, se non avesse barattato volentieri una Leonia piena di pluripregiudicati con il centro città sgombro dall'immondizia.

Claudio Careri (twitter: @clacar1977)

giovedì 16 maggio 2013

Racconti da Via Padova / Personaggio Numero Uno

A Jonas piacevano le birre. Se le scolava dalla grande bottiglia verde sullo scalino dello spaccio sudamericano. Con lui gli hermanos. Peruviani come lui. Ma lui, la sua birra dalla grande bottiglia verde, se la beveva in disparte. Non che non volesse stare con gli altri. Li osservava, li salutava. Sorrideva. Ma si teneva a una distanza intermedia, né troppo vicino né troppo lontano. A Jonas piaceva così.

A Jonas non piaceva via Padova. Cioè, non è che non gli piaceva. Ci viveva. Cioè, ci viveva. Ci dormiva, più che altro. Quando non lavorava. A Jonas via Padova non faceva né caldo né freddo. Per i bianchi, per i milanesi, via Padova è via Padova, non una via come le altre. Per lui era la carretera, una semplice carretera del cazzo, con dell'asfalto del cazzo, con delle macchine del cazzo, con dei giardinetti del cazzo. Una via normale. Come tante ad Ate, il suo paese natio del cazzo.

Lo spaccio sudamericano, Dodo (che nome del cazzo), alle dieci di sera chiudeva. Tornatevene a casa, diceva il boss. Qualcuno grugniva, qualcun altro sputava dell'impasto giallastro sul marciapiede, ma poi, tutti, se ne andavano.

Meglio non fare storie. E storie, Jonas, non ne faceva. Soprattutto negli ultimi giorni, dopo che quell'africano del cazzo - vedi perché noi sudamericani odiamo quei negri de mierda e ogni tanto uno degli hermanos li manda in ospedale con un coltello nello stomaco, pensa Jonas - ha fatto fuori tre bianchi milanesi, meglio non dare fastidio. La polizia, quei cabròn della polizia, è molto nervosa, ha voglia di menar le mani. Basta poco, si dice Jonas, e ti ritrovi a succhiare piscio in questura. Meglio non fare storie.

Mierda. Quando li vide Jonas si rigirò tra i denti quell'imprecazione. La bloccò con la lingua, la impastò con la saliva e la sputò. Cazzo, questa non ci voleva.

(@agoerre)

mercoledì 15 maggio 2013

Con l'esercito finisce l'era Pisapia

Giuliano Pisapia, sindaco di Milano, ha chiesto che l'esercito ritorni in città. Per presidiare postazioni fisse, così da liberare poliziotti e carabinieri per le pattuglie cittadine.

Credo che con questa decisione si sia spezzata l'illusione di un sindaco diverso per Milano. Pisapia si è lasciato trascinare sullo stesso campo della destra. Senza nemmeno una pressione popolare di stampo razzista, il quartiere Niguarda è stato molto degno nel chiedere silenzio e non strumentalizzazioni, il sindaco di Sinistra Ecologia e Libertà è ricorso ai metodi di una Letizia Moratti o di un Bobo "la-ndrangheta-a-Milano-non-esiste" Maroni.

E' chiaro che Kabobo, il ghanese che ha ucciso tre persone, è un caso isolato, il suo gesto figlio di un problema psichiatrico. Non c'è, a Milano, nessuna emergenza microcriminalità. Nessun problema di integrazione o di quartieri ghetto. Nessuna ragione alcuna per richiamare l'esercito.

Esercito che non è stato invocato per l'Umbria, dove la 'ndrangheta è ormai dentro i gangli di un'economia allora florida e oggi in crisi.

Esercito che non è stato invocato a Desio o a Solaro o a Trezzano sul Naviglio o sui cantieri di Expo 2015, dove la 'ndrangheta regna e impera.

Esercito che non è stato invocato in Calabria o nella Locride o nella Piana di Gioia Tauro, territorio a sovranità limitata, per lo Stato, e a piena sovranità, per le cosche.


Ma poi, a chi importa della Calabria (e dei suoi giornali)?


Il giornalismo calabrese ricalca i vezzi autoreferenziali, livorosi e settari di quello nazionale. Fin qui è la scoperta dell'acqua calda.

Ieri una vicenda di querele strombazzata candidamente a mezzo stampa, tra il magistrato Alberto Cisterna (ex numero due di Pietro Grasso alla Procura Nazionale Antimafia) e Michele Inserra del Quotidiano della Calabria.

Oggi un tweet criptico di Lirio Abate.



Difficile non cogliere in questi 140 caratteri il riferimento all'immarcescibile Piero Sansonetti, direttore di Calabria Ora. Anche perché, inzigato dai followers, il giornalista dell'Espresso si lascia sfuggire larvate allusioni.

Manca solo ora che qualche giornalista minacci di abbandonare Facebook per troppa notorietà, o per violazione della privacy (non risulta che Twitter sia molto à la page nella terra dei Bruzi). Poi il calco clonato dei peggiori vezzi del giornalismo, che lo rendono sempre più "incredibile" e graffiante verso la realtà, è servito.

Sullo sfondo, in una terra permeata di nonsense, la domanda che si fanno i più.

Ma a chi interessa realmente cosa avviene in Calabria? Esistono delle chiavi di lettura altre del giornalismo investigativo che non agisca sulla scorta delle veline? E ancora le provocazioni permanenti, a lungo andare, a chi giovano se non a un narcisismo egotico, fine a se stesso (come l'abolizione del 41 bis in terra di 'ndrangheta)?

Ahimé, interrogativi destinati a rimanere, non esauditi, che ci porterebbero a riflettere sull'utilità di giornali, siti, insomma dell'informazione nei territori occupati di Calabria in senso stretto, a livello nazionale, ampliando lo sguardo.

Claudio Careri (twitter: @clacar1977)

martedì 14 maggio 2013

Prossima fermata, Italia

Se ne stava lì seduto, appena salito sul vagone della metro che lo portava al lavoro.
L'Italia gli correva di fronte fermata dopo fermata.

Gorla, fermata Gorla.
'Ndrangheta, 7 arresti nel milanese. Fra cui dipendenti e funzionari comunali. Abuso d'ufficio, turbata libertà degli incanti, frode in pubbliche forniture. (ANSA)

Turro, fermata Turro
Brunetta attacca la Boldrini. Doveva difendere di più le donne del Pdl dagli insulti durante la manifestazione di Brescia.

Rovereto, fermata Rovereto
A Brescello arrestato un latitante di 'ndrangheta. (ANSA)

Pasteur, fermata Pasteur
"È in corso un attacco politico contro un leader scelto democraticamente da dieci milioni di italiani". Daniele Capezzone.

Loreto, fermata Loreto
"La Valle d'Aosta è ancora in tempo per combattere la 'ndrangheta. Ma bisogna fare presto". Nicola Gratteri, procuratore antimafia di Reggio Calabria. (La Stampa)

Lima, fermata Lima
"Il fatto che la signora Boccassini abbia detto che tutte le donne che frequentavano Arcore erano delle prostitute significa che mi sono presa della prostituta, perché sono andata decine di volte lì a cena o a pranzo". Daniela Santanché

Porta Venezia, fermata Porta Venezia
Sono ripresi i sopralluoghi sui terreni di Volpiano (Torino) indicati dall'imputato Rosario Marando come il luogo di sepoltura di Antonio e Antonino Stefanelli e Franco Mancuso, esponenti della 'ndrangheta assassinati nel 1997. (ANSA)

Palestro, fermata Palestro
"Se non si ferma l'inquisizione giudiziaria che, da oltre dieci anni, ininterrottamente perseguita il presidente Silvio Berlusconi, l'Italia non ce la farà".

San Babila, fermata San Babila
Ragusa, si dà fuoco per difendere la casa dall'asta giudiziaria, è grave. (ANSA)

Se ne stava lì seduto.
Le due Italie gli correvano di fronte, fermata dopo fermata

lunedì 13 maggio 2013

Mamma li negri

Dopo l'uccisione di due passanti da parte del ghanese Mada Kabobo mi aspettavo un'altra reazione da parte degli italiani. Invece, a parte le solite baggianate leghiste (ché anche per essere razzisti ci vuole acume) e i titoli inutilmente provocatori di Libero, non ci sono state reazioni al grido "Prima gli italiani" (anche negli omicidi, ovviamente), "fuori gli stranieri dall'Italia", "i neri ci hanno rotto".

Gli italiani hanno altro a cui pensare. Nelle nostre città si muore per omicidi molto meno che, per dirne una, negli Stati Uniti. E gli omicidi del ragazzo ghanese sono frutto più di un raptus momentaneo che di un humus culturale ben preciso. Per intenderci, non è stato un gesto di ribellione contro il bianco fomentato dalla comunità degli stranieri a Milano, come può avvenire in qualche quartiere di Parigi. Milano ha reagito bene, tanto che i soliti leghisti sono stati cacciati dal quartiere Niguarda, scenario dell'alba di sangue.

La crisi, ormai lunga più di 5 anni, ha cambiato profondamente la società italiana. Più di quanto si possa pensare. E' una società più cinica, più violenta - come dimostrano le reazioni alla sparatoria di Palazzo Chigi - ma anche più disincantata. In altri tempi, i giornalisti di certa scuola avrebbero trovato terreno fertile per campagne ideologiche di stampo razzista. Ora, indifferenza. Al più, stentata indignazione.

venerdì 10 maggio 2013

Tizian, a cui la 'ndrangheta del Nord voleva spaccare la testa


"Prima di un atteggiamento di omertà, bisogna riscontrare una certa complicità e convenienza da parte degli imprenditori settentrionali a fare affari con la 'ndrangheta. Come spiegare altrimenti il caso della Perego Strade? (azienda infiltrata dalla mafia calabrese n.d.r.)".
Stimolato da Cesare Giuzzi, firma del Corriere della Sera, Giovanni Tizian, alla presentazione del libro La nostra guerra non è mai finita, tocca un tasto centrale nel sistema di potere, che ha consentito alla criminalità organizzata calabrese di mettere solide radici nel tessuto economico-sociale del profondo Nord. E tira in ballo quella connivenza omertosa di cui parla Ilda Boccasini, quando ribadisce a chiare lettere che gli imprenditori non denunciano.
Ha la forza tranquilla di chi vuole portare a termine la sua battaglia, Giovanni, che accenna anche all'importanza del voto non condizionato, in una regione in cui un assessore regionale pagava 20 euro ogni singolo consenso, secondo gli inquirenti: "Non bisogna rinunciare a servirsi del proprio diritto, cederlo significa perdere la dignità", afferma.
Sapessi com'è strano, parlare di 'ndrangheta a Milano. In un momento in cui è più facile voltarsi dall'altra parte, abbassare i toni, non allarmare, rassicurare, Giovanni sciorina concetti basici, ma ficcanti. Qualcuno nelle ultime file bisbiglia: "Ma chi è? Saviano?". Il tam tam di Zero, Zero, Zero non ha lasciato scampo a nessuno.
Ventiquattro anni fa la 'ndrangheta ammazzava a Bovalino Peppe Tizian, bancario, definito "funzionario integerrimo" dagli investigatori. Oggi suo figlio Giovanni è giornalista. Ha cominciato a coltivare nella civilissima Modena la passione per la scrittura ed è costretto a vivere sotto scorta.
In un'intercettazione del 2011 il boss operante in Emilia, con solidi collegamenti con le 'ndrine della Locride, Nicola "Rocco" Femia, al telefono, parlando del cronista della Gazzetta di Modena, minaccia senza mezzi termini: "Se non sta zitto gli sparo in bocca".
Allora il procuratore capo di Bologna - uno dei più accreditati alla successione di Pietro Grasso alla Procura nazionale antimafia - si mosse in prima persona per assicurargli una protezione. Giovanni, usurpato della sua libertà, racconta di essersi trovato in Sicilia e di aver scritto in quel periodo di casalesi, di 'ndrangheta e di Cosa Nostra. Insomma la cosa peggiore in questi casi è non sapere da dove proviene il pericolo.
In prima fila, in questa libreria a Cento Passi dal Duomo, c'è il giudice per le indagini preliminari Giuseppe Gennari del Tribunale di Milano. La platea è composta, anche se a tratti indolente.
Gennari è finito nel mirino della Camera Penale di Milano, udite, udite, in quanto si "si è spinto sino a trattare di vicende processuali ancora pendenti e ancorché definendole tali, le ha fatalmente proposte come verità ormai acquisite". Effettivamente è un problema molto serio, come il legittimo impedimento. Anche il gip ha scritto un libro dal titolo molto eloquente, Le fondamenta della città. Come il Nord Italia ha aperto le porte alla 'ndranagheta, è un ottimo strumento di lavoro e di divulgazione per chi non mastica questi temi.
Dopo un'ora e mezza la sala si svuota celermente, Tizian, invitando alle buone pratiche di antindrangheta militante e di resistenza civile, conclude: "Tra qualche anno non ricorderò più i nomi degli uomini che ora mi privano della mia libertà. Ma nessuno potrà restituirmi mio padre. Il passato è una ferita, ma non brucia più, anzi è diventato uno stimolo per svolgere il più correttamente possibile il mio lavoro".
Quella di Giovanni Tizian è una lezione autenticamente morale, c'è tutta l'austerità di chi non si sente assoluto portatore di una missione salvifica, mancante quindi dei clamori e dei crismi del savianesimo. Ecco perché è da sposare in pieno.
Claudio Careri (@clacar1977)

giovedì 9 maggio 2013

La tirannia dei luoghi comuni

Un Sud ammazzato dai suoi luoghi comuni. La mafia, la lotta alla mafia. Gli eroi, gli antieroi. I briganti, gli sbirri. I signori, i pezzenti. I baroni, i contadini. Il Gattopardo, tutto-cambi-perché-niente-cambi, gli arancini, Tomasi di Lampedusa, Montalbano-sono, l'Aspromonte, Corrado Alvaro, il-giorno-della-civetta. Il sole, il mare, i prodotti tipici, il teatro, i greci nel sangue.

Già, i luoghi comuni. Mi son tornati in mente leggendo il bellissimo libro di Giuseppe Rizzo, "Piccola guerra lampo per radere al suolo la Sicilia", Feltrinelli.

Ma, da trapiantato calabrese a Milano, estenderei il fenomeno di quelle che l'autore definisce le "minchiate", al Nord. Com'era quella? Ah, ecco, il "polo produttivo", la "Milano da bere", "qui la gente si alza al mattino presto per lavorare", "i soldi si fanno al Nord e devono rimanere al Nord".

E' una nazione, la nostra, che sta morendo di luoghi comuni, di frasi fatte, di discorsi pubblici prestampati, di facce ciclostilate.

La faccia di Enrico Letta che, con il candore della democristianità che gli scorre nelle vene, ha detto l'altro giorno in visita a Milano che tranquilli, ci pensa il governo a non permettere le infiltrazioni della 'ndrangheta nei cantieri di Expo 2015. I luoghi comuni della lotta alla mafia. Baggianate. Letta è arrivato buon ultimo. La 'ndrangheta nei cantieri c'è già. E per fermarla bisogna fermare i cantieri, ci vuole tempo, ci si deve metter testa. Peccato che tempo non ce n'è, testa non serve, servono le braccia, ci si deve sbrigare perché sennò addio Expo 2015 ché già ce lo han detto che ce lo tolgono. E quando c'è da far presto, amici, signori, lorsignori, la 'ndrangheta è il miglior partner.

Certo Letta, certo.

@agoerre

Ferrara solo un guitto. Impastato e tanti altri si ribellarono alla mafia

In un paese normale le esternazioni cialtronesche di Giuliano Ferrara sulla mafiosità siciliana verrebbero derubricate come battute di terza categoria di un comico caduto in bassa fortuna, guitterie di basso livello insomma. Qui da noi assumono una rilevanza tale da portare una Twitstar come Enrico Mentana (dopo aver dato la falsa notizia della morte di Fabri Fibra il primo maggio) ad abbandonare il social network (sic), travolto dagli improperi di massa dei trinariciuti e dei nativi della Trinacria. Nell'attesa di capire se supereremo mai questo choc, va detto che l'equazione di @ferrarailgrasso - rinverdita da un ventennio di predicazione leghista - è roba vecchia, un cliché che presume un'inesistente superiorità antropologica italica, smentita da innumerevoli fatti e inchieste giudiziarie. Però l'Elefantino, prima di cavalcare a testa bassa la polemica e di imbarcarsi nell'ennesima provocazione da Cirano arciconformista al contrario, poteva quantomeno chiedere a una delle penne di punta, lo scrittore siculo Pietrangelo Buttafuoco, se tutti i siciliani fossero intimamente mafiosi o contigui a Cosa Nostra. Oppure, poteva tardare e fare il sillogismo proprio nel giorno in cui si commemora il 35esimo anniversario della morte di Peppino Impastato, che pure geneticamente mafioso era, ma ontologicamente ha rifiutato l'etichetta, ribellandosi alla "montagna di merda", pagando a caro prezzo il suo atto sovversivo. Certo, non ci hanno ancora spiegato come sia possibile vivere senza mafie in un paese senza memoria e senza verità, specialmente perché - quando la battaglia contro le organizzazioni criminali poteva essere vinta - le istituzioni (il tanto vituperato Stato, così presente nelle autocommiserazioni vittimistiche di tanta parte di pubblicistica meridionalista) si è ritratto in buon ordine, consentendo alle consorterie di rigenerarsi e di conquistare solidità e potere. Ma in Italia, si sa, il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili. E tutto questo Ferrara finge di non saperlo.

Claudio Careri (twitter @clacar1977)

mercoledì 8 maggio 2013

La mafia fa parte del sud. C'ha ragione Ferrara

C'ha ragione Giuliano Ferrara, c'ha.

Certo, è grosso, grasso, lercio, sudaticcio ed è anche stato una spia, Ferrara. E' spregevole, il più delle volte. Ma quel suo ragionamento, "la mafia è l'essenza della Sicilia come la filologia greca", non solo è condivisibile. Ma è anche estendibile. Alla Calabria, per esempio.

Il giudice Giovanni Falcone, pace all'anima sua, ha colto nel segno quando disse che la mafia è un fenomeno umano e come tale ha un inizio e ha una fine. Ma la mafia è umana nella maniera più radicale, è umana perché culturale, è umana perché essenziale, è umana perché s'attacca alla radice (ecco perché radicale) di una cultura e mangia con essa, beve con essa, vive e respira con essa.

Prima che i siciliani, e con loro i calabresi, piangano e urlino e gridino e denuncino il razzismo di Ferrara lo ammettano. La mafia vi appartiene. Come appartiene ai calabresi. E finiamola qui.