mercoledì 3 luglio 2013

Ha ancora senso un blog?

La politica? Perché c'è ancora politica in questo dannato Paese?
Gli esteri? Perché chi ha mai letto o parlato di politica estera in questo dannato Paese?
L'economia? Perché, c'è un serio think-thank di economisti in questo dannato Paese?

Dunque, di che deve scrivere un blog come questo? E' una domanda che mi pongo spesso insieme al dubbio che, forse, un blog - almeno non un fashion blog di fighettume vario - non ha più senso, schiacciato com'è dal ciarpame ridondante di cui è circondato, dal putrido e puerile dibattito pubblico.

Persino Google si è rifiutato, per qualche minuti l'altro giorno, di tenere on line un sito come Dagospia. Il simbolo e lo specchio di una degenerazione dell'informazione di cui all'estero si fa fatica a comprendere molto.

Direte, in Germania c'è la Bild, non certo la Bibbia della correttezza e del giornalismo di qualità. Ma, sempre in Germania, ci sono fior fiore di pubblicazioni e mai la Frankfurter Allgemeine si sognerebbe di piazzare in pagina o sul sito tette e culi.

Quindi, che senso ha più un blog?

lunedì 24 giugno 2013

Pd, l'ancella del bunga-bunga

Da partito con afflati ambiziosi e con progetti magniloquenti di diventare punto di riferimento di una sinistra aperta, cosmopolita, moderna, il Pd si sta riducendo ad ancella nel bunga bunga di Silvio Berlusconi. Il suo refrain è: "Non incida sul governo".

Refrain che va bene su tutto, come le scarpe nere.

Berlusconi condannato per il caso Ruby? "Che questo non incida sul governo"

Berlusconi rischia il rinvio a giudizio per la compravendita di senatori che fece cadere il governo Prodi? "Che questo non incida sul governo".

Berlusconi avrebbe evaso le tasse in Irlanda? "Che questo non incida sul governo".

Berlusconi sarebbe il mandante dell'omicidio di Gheddafi? "Che questo non incida sul governo"

Berlusconi condannato per aver ascoltato l'intercettazione "Abbiamo una banca" di Fassino? "Che questo non incida sul governo".

Berlusconi vuole abolire l'Imu per tutti e chi se ne fotte dell'Europa "tanto mica ci cacciano" con tanti saluti alla credibilità internazionale? "Che questo non incida sul governo".

Twitter: @agoerre

mercoledì 19 giugno 2013

Racconti da via Padova/ Personaggio numero tre

A N. piaceva la birra. E si credeva un personaggio stereotipato. Anzi, si percepiva come uscito proprio dall'album dei luoghi comuni. D'altronde, come gli rammentava il figlioletto, le verità “date sotto forma di luogo comune sono molto più profonde e difficili di quello che sembrano”. Non erano, certo, parole sue, ma del suo guru letterario, David Foster Wallace. Il nome lo aveva ben impresso in mente. Non foss'altro che la sua foto troneggiava sopra la scarna libreria di casa. Comunista negli anni Sessanta, movimentista nei Settanta, edonista negli Ottanta, giocatore in Borsa nei Novanta, squattrinato nei Duemila. Più stereotipato di questo si muore, pensava.

Stereotipato nell'accumulare capitali, stereotipato nel perderli con la fine della bolla finanziaria di internet, stereotipato nell'essere abbandonato dalla moglie, stereotipato nel trovare come unico lavoro quello di spazzino dell'Amsa, Milano, Italia, Europa.

Stereotipato come quella via, via Padova, Milano, Italia, Europa. Un luogo comune lunga 4 chilometri. A N. interessava poco della gente di via Padova. Doveva guidare il suo furgoncino, lui. Cambiare i sacchetti di plastica, lui. Svuotare quelli pieni, lui. Una noia di lavoro lunga 4 chilometri, quella.

Turno di notte, per N. Non si ricordava più se per sua scelta o meno. Ci si era trovato, a lavorare con il buio, e ci si era abituato, scrollando le spalle come spesso si trovava a fare, senza mai sbuffare o comunicare con il corpo rabbia o sconforto. Una scrollata di spalle e via.

Al bar/emporio/supermarket del peruviano N. non rammenta niente di particolare prima di quello che successe. I soliti briachi, il solito innocente, innocuo, anticapitalistico brusio fra reietti con in mano lattine di birra troppo piccole per la loro sete, troppo grandi per le loro ambizioni.


N. lo prese dritto sul volto, il colpo. Senza un perché, uno stereotipato, sensato, razionale, qualsiasi perché. E il sangue... Oh sangue.

sabato 15 giugno 2013

A Genova non successe niente.

La polizia non va condannata. Mai. I politici che presiedettero quella "macelleria messicana"? Non scherziamo. A Genova, nel 2001, non successe niente. Ma proprio niente.

Non ci fu una totale, TOTALE, sospensione dei diritti civili, di protesta, di manifestazione.
Non ci fu un pestaggio deliberato, cosciente, prolungato e sadico da parte di poliziotti, carcerieri, personale medico e infermieristico.
Non ci fu lo strappo di piercing, il taglio di dread, gli abusi sulle donne, le frasi offensive, l'incitamento al fascismo.
Non ci fu una città ostaggio delle forze dell'ordine. Sì, delle forze dell'ordine. Dei VERI violenti.

E la magistratura è bella e brava, di sinistra, forte coi forti e debole coi deboli. E sì, io sono Ernesto Che Guevara.


mercoledì 12 giugno 2013

Perché amo David Foster Wallace

Avvertenza.
Quella che segue è una dichiarazione d'amore e, come tale, altamente soggettiva e senza nessuna pretesa letteraria o arroganza intellettualoide.


Quindi, perché amo David Foster Wallace?

Perché non amava il finale, tanto che nella Scopa del Sistema troncò una frase a metà. D'altronde, nella vita di tutti i giorni mica c'è un finale, magari con una morale da trarre o una linea da tracciare?

Perché amava così tanto la vita che da un certo punto in poi volle viverla senza aiuti chimici che gli sarebbero serviti per scacciare la bestia della depressione. Non ci riuscì.

Perché denunciava le storture di una società il cui motore era spinto perennemente al massimo alla ricerca del divertimento tanto da evitare che i suoi romanzi fossero l'ennesimo ingranaggio di quel divertimento.

Perché i suoi romanzi ti assediano, ti urticano, ti soffocano, ti stroncano. Non ti lisciano il pelo, non ti perculano, non eccitano il tuo ego da sfigato.

Perché era fragile, non un cazzo di finto eroe sapientone che spargeva verità.

Perché rappresentava la noia. Di un uomo, di un popolo, di una nazione, di una generazione. Noia del lavoro, noia della carriera, noia della normalità, persino noia dell'essere annoiati.

Perché i suoi personaggi sono antieroi, hanno dipendenze, sono fragili, sono contrastati e urticanti, a volte anormali, a volte tristemente normali.

Perché è impossibile recensire romanzi come Infinite Jest, storie che si intrecciano fra di loro fino ad asfissiarsi a vicenda.

Perché David Foster Wallace era "fottutamente umano".

venerdì 7 giugno 2013

Un discorso politico dal 2036

Un discorso politico che potrebbe andare bene per qualsiasi stagione politica.

Per qualsiasi colore politico.

Per qualsiasi uomo politico.



Roma, 2036

Amici elettori, amiche elettrici,
la situazione economica è tale che ci siamo trovati costretti a varare questo governo di unità nazionale e per questo ringrazio i volenterosi del Pd e del Pdl che, superando le reciproche diffidenze, hanno, per il bene del paese, unito le loro forze.

Il 29esimo anno consecutivo di recessione ci ha costretto a questo passo, ma sarà l'ultimo. Dopo che avremo superato le emergenze, Pd e Pdl torneranno a combattersi lealmente sul terreno politico.

Visto che la politica, ahimé, ha fallito, il governo, in accordo con l'illustre e lungimirante nostro Presidente della Repubblica, ha varato una commissione di saggi che redigerà una relazione saggia che dovrà essere sottoposta a una commissione di supersaggi che redigerà una relazione supersaggia che dovrà essere sottoposta a un ultrasaggio che, se non si sarà frattanto appisolato, consegnerà la bozza definitiva al Parlamento che, a questo punto, potrà tornare a litigare attorno alla bozza.

Tutto questo in 18 mesi, non di più.

Intanto, visto che noi del governo avremo poco da fare, taglieremo un po' le pensioni e favoriremo la flessibilità del lavoro in un mercato dove ancora resistono ingiustificate sacche di sclerotico immobilismo. Per esempio, girando per le piazze di questo straordinario Paese, mi è capitato di parlare con un padre il cui figlio ha firmato un contratto di un mese. Incredibile! Che vergogna! E' per questo che gli imprenditori non assumono più. Perché ci sono ancora sindacati che obbligano alle assunzioni di un mese.

Bisogna fare in modo che i contratti durino 1 giorno in modo che i nostri imprenditori possano programmare il futuro con una certa sicurezza, senza il pestilente fiato sul collo di chi pretende, ancora nel 2036, la pausa pranzo!

Bene, siccome ora si è fatto tardi, dirò un po' di frasi retoriche così come mi sovvengono.

Le famiglie non arrivano alla fine del mese.
I giovani sono il nostro futuro.
Le banche aiutino le giovani coppie nell'acquisto della prima casa.
Non ci sono più mezze stagioni.

Enrico Letta


martedì 4 giugno 2013

Quando ero piccolo

Quando ero piccolo mi dicevano di leggere i giornali ché così avrei dominato la realtà del mondo. Poi ho conosciuto i giornalisti, la guerra fra bande dei giornalisti, i salotti dei giornalisti. La Repubblica vs il Fatto Quotidiano. il Giornale vs l'Unità. Libero vs resto del mondo

Quando ero piccolo mi dicevano di studiare Dante e Manzoni e Pascoli. Ma ci siamo persi gli scapigliati, i bohémien, Baudelaire, Pynchon, Don De Lillo, David Foster Wallace, Jonathan Franzen.

Quando ero piccolo mi dicevano che la tv faceva male. Che il pc faceva male. Che l'alcol faceva male. Che la droga faceva male. Poi venne Michael Douglas che ci disse che il sesso orale fa venire il tumore.

Quando ero piccolo mi dicevano che l'Italia era il posto più bello del mondo. Che la Calabria aveva i difetti ma che, beh, vuoi mettere?, c'è il sole, il mare.

Quando ero piccolo mi dicevano che avrebbe pagato l'onestà. Poi... beh, questa la sapete.

Quando ero piccolo mi dicevano che esiste Dio, Gesù, Spirito Santo, Madonne, Santi e compagnia viaggiante. Poi ho scoperto il MacAllan invecchiato 21 anni a 200 euro la bottiglia.

Quando ero piccolo mi dicevano che il topolino prende il dentino e ti lascia il soldino. Che la cicogna porta i bambini. Che in Svizzera le strade sono pulite e i marciapiedi sono puliti e le panchine sono pulite. Che Saddam Hussein era cattivo ma meglio lasciarlo al potere ché dopo un po' ci siamo scocciati di combatterlo. Poi venne Bin Laden e ci portò via tutti i sogni.

Quando ero piccolo i cartoni erano hollybenji che giocavano a calcio, milaesciro che giocavano a pallavolo, mimì che giocava pure a pallavolo ma quella era sempre triste. Poi venne Peppa Pig che grugnisce.

Quando ero piccolo ero piccolo. Poi sono stato grande.

(agoerre)

sabato 1 giugno 2013

Perché abolire il finanziamento pubblico

A parte che la toppa è peggiore del buco e che, come scrive qui la bravissima Arianna Ciccone, la presunta abrogazione del finanziamento pubblico ai partiti è una baggianata di proporzioni immani di cui Enrico Letta (a proposito, che ha fatto fino a ora il suo governo? Parlo di cose concrete, non di annunci deliranti) si dovrebbe solo vergognare.

Ecco, a parte questo, perché dovremmo cedere al mefistofelico motto grillesco "Basta soldi pubblici ai partiti"? E' vero, i partiti hanno speso male i nostri soldi. Ma non per questo vuol dire che l'istituto è da abolire.

Come ha rilevato un tweet del giornalista di Radio24 Simone Spetia sono pochissimi i Paesi che non prevedono un minimo di finanziamento pubblico. Persino gli Stati Uniti, patria del capitalismo, i partiti ricevono un pur minimo aiuto statale.


Se si vuole privatizzare la già asfittica politica italiana, lo si faccia pure.

Ma che almeno ci si renda conto di ciò che questo comporta. Niente impedirà, in un Stato come il nostro in cui nessuno controlla niente, che le condizioni economiche e finanziarie dei pochi che contano possano decidere le sorti dei partiti, dei suoi uomini e di quelli che dovrebbero essere i nostri rappresentanti.


mercoledì 29 maggio 2013

Caso Fabiana, perché i calabresi non si indignano così anche dei boss?

Sul femminicidio e la storia di Fabiana la penso come "i daSud" e non certamente da oggi. La riflessione però trascende il caso specifico e le polemiche nate per i pezzi di Domenico Naso sul ilfattoquotidiano.it e di Francesca Chaouqui sul corriere.it.

Ricordo un'ondata di indignazione calabrese planetaria per delle frasi avventate e stupide di Antonello Venditti durante un concerto che ferirono l'onore dei calabresi, per un libro di Giorgio Bocca, per un pour parler da bar di Guido Crosetto. Magari a incazzarsi erano gli stessi che votavano un partito alleato della Lega Nord, che considerava il Mezzogiorno la latrina d'Italia, senza curarsene più di tanto.

Ora mi chiedo: ma che fine fa questa rabbia collettiva, questo senso di appartenenza e orgoglio identitario? Si disperde nei rivoli calcistici, nelle questioni di campanile e di cipiglio? No, perché, semplicisticamente, se ci si ritorcesse contro i malfattori e i gaglioffi della terra di Calabria, se ci fosse la stessa focosa levata di scudi, magari dopo l'arresto di un mammasantissima come Pasquale Condello, forse si potrebbe vivere in una regione de-'ndranghetizzata.

Claudio Careri (@clacar1977)

lunedì 27 maggio 2013

Il calabrese che odia le donne

Premesso. Non mi iscrivo alla schiera dei calabresi miei connazionali che inforcano la lente del vittimismo più putrido.
Premesso che, d'altra parte, altri mi ascrivono fra le fila dei traditori della patria, in quanto emigrante e in quanto sparlante della sua terra natìa (basta fare un giro fra alcuni gruppi deliranti su facebook che amano attaccarmi, ma ognuno, si sa, ha i suoi divertimenti).
Ecco, premesso tutto questo, cari giornalisti, siete ancora caduti nel più bieco razzismo nei confronti della Calabria.

Il caso è quello della 16enne accoltellata e bruciata viva a Corigliano Calabro. Non passano nemmeno 24 ore e il Corriere della Sera, non Libero con le sue sparate o il Giornale con il suo populismo, pubblica la lettera di una calabrese (tu quoque...) partorita da una mente fuori dalla realtà. Fuori da ogni aggancio con il vissuto reale della Calabria.

Si ammazzano le donne in tutta Italia? Ma solo nel caso della Calabria ci si interroga sul maschilismo congenito della società. Con il sottinteso, manco tanto implicito, che la società calabrese peschi da un passato retrogrado e medioevale.

Donne vengono violentate, stuprate, attaccate, minacciate, colpite in tutta Italia? Ma solo nel caso della Calabria si sfornano analisi teoriche sulla natura sostanzialmente femminicida di quei popoli. Non mi sorprenderei che al prossimo omicidio, al prossimo caso, si rivalutassero gli studi di Lombroso.

Non cadrò nel qualunquismo di chi dice "poteva capitare dovunque". E specifico. No, il discorso deve essere impostato, oltre che sulla particolarità di ogni caso che sostanzialmente fa storia a sé, su una società, quella italiana, che non ha saputo e non sa accettare il ruolo della donna.

E, care donne, la colpa è anche vostra. Le vostre battaglie per la libertà del corpo si sono ridotte a svenderlo, questo corpo. E a usarlo, questo scopo. Anche da voi deve partire un'analisi di coscienza.







sabato 25 maggio 2013

Lo stato dell'arte ('ndranghetista) / E c'è anche il marito della Cucinotta

Settimana importante sul fronte della 'ndrangheta.

Milano. Condannato in Appello, dopo il rinvio della Cassazione, Salvatore Barbaro. Sentenza che definitivamente ammette la presenza di 'ndrangheta a Buccinasco. Altro risultato importante. Maurizio Luraghi potrebbe essere il primo imprenditore condannato per associazione a delinquere a non avere legami di sangue con la Calabria. Lui è milanesissimo. Ne scrive Gianni Barbacetto.

Calabria/Lombardia. Si chiama Sunrise l'ennesima operazione di polizia che dimostra, se ce ne fosse ancora bisogno, il legame 'ndranghetistico fra il Nord e la Calabria. Quattro milioni di beni sequestrati alla famiglia Mancuso di Vibo Valentia. Operazioni anche in Brianza. Colpito il boss di Giussano, Salvatore Mancuso, già in carcere. Ne scrive il Giorno.

Calabria/Roma. C'è di tutto nell'inchiesta Libra. Tutto quello che la 'ndrangheta è diventata e che molti faticano ancora a vedere. Ci sono i rapporti con la politica. Ci sono i collegamenti con la massoneria. Ci sono i boss che fanno direttamente da imprenditori. I Tripodi, famiglia potentissima del Vibonese, voleva mettere le mani su un appalto della videosorveglianza a Roma. E per farlo, avevano agganciato politici, impresari (fra cui il marito di Maria Grazia Cucinotta, non indagato). Sequestrati 40 milioni di euro, fra cui il bar del centro di Roma, La Dolve Vita. Ne scrive il Messaggero.

C'è o non c'è? No, per lui la 'ndrangheta non c'è. Peccato che lui, Cosimo, è figlio del boss della Piana Domenico Mico Alvaro. Al Processo Meta a Reggio Calabria il giovincello di belle speranze dice che della 'ndrangheta lui ha appreso dai giornali. (AdnKronos).

(@agoerre)


Addio Don Gallo

L'unico prete che avrebbe potuto farmi ridiventare cattolico è morto.

Addio Don.


http://video.repubblica.it/edizione/genova/diretta-genova-i-funerali-di-don-gallo/129456/127959

giovedì 23 maggio 2013

Ode a una calabrese per bene

Iaia Capogreco è una calabrese. E ha fatto del bene. Mostrando e dimostrando che non ci sono solo calabresi che si piangono addosso, che maledicono lo Stato che li ha impoveriti, i mass media che li denigrano e il destino cinico e baro che li ha impoveriti.

Iaia Capogreco è andata in tv, alle Iene, a rappresentare quei calabresi che emigrano, con il sorriso sulle labbra, la speranza negli occhi e il futuro fra i capelli. Come tanti suoi corregionali è andata via, lontana, per studiare, per lavorare, senza mai perdere la capacità di vedere le sofferenze degli altri, di capire che lì fuori c'è un mondo più grande della propria giovinezza e una speranza da offrire a chi offre rose spelacchiate.

Iaia Capogreco ha ribaltato parecchi cliché, ha infranto pregiudizi puzzolenti. Ha spiazzato. Ha gettato un ponte, lei con suo padre, a quei tanti Sud del mondo che in Calabria possono incontrarsi. E darsi forza. Perché no?

(@agoerre)

martedì 21 maggio 2013

Racconti da Via Padova / Personaggio numero due

Ascanio amava la birra.

Ma non amava via Padova. Non amava quella vita. E, se proprio doveva dirlo, non amava più sua moglie. Ma questo glielo dirà, un giorno. Ma stava zitto.

Il suo lavoro, beh. Il suo lavoro gli serviva a vivere, a togliersi qualche sfizio e a ingannare il tempo fra un rimpianto e una speranza. Chi vive sperando muore cagando, diceva il collega sulla volante impegnato in qualche discorso dei suoi. Certo, avrebbe voluto rispondergli Ascanio. Ma stava zitto.

Di notte via Padova, se è possibile, fa ancora più cagare, gli diceva il collega sulla volante. Anche Milano fa cagare, avrebbe risposto Ascanio, se avesse voluto rispondere. Ma stava zitto.

Erano nervosetti, giù in centrale. I politici avevano rotto il cazzo con 'sta storia dell'africano che ha ammazzato tre persone, bianche, brave e pure impegnate nel volontariato. Ci mancavano i volontari accoppati, pensava Ascanio giù in centrale. Ma stava zitto. E quando i politici rompono il cazzo, gli sbirri ai piani alti lo rompono agli sbirri ai piani bassi. Non che la cosa dispiacesse ad Ascanio. C'era libertà di menar le mani, i discorsi sulla polizia al servizio della gente tornavano per un po' nello scantinato della retorica in disuso e il sangue ricominciava a scorrere nelle vene dei ragazzi della Mobile. Ho proprio bisogno di menar le mani, avrebbe voluto dire Ascanio. Ma stava zitto.

Ho proprio bisogno di menar le mani, stava invece dicendo il collega sulla volante. E via Padova offre tanti spunti, se è per questo. Se spacchi i denti ai magrebini, il giorno dopo non avrai certo le interrogazioni in Comune e gli articoli incendiari sul Corriere della Sera. Quello che succede in via Padova, rimane in via Padova. Se succede fra le 11 di notte e le 3 del mattino non succede. Semplicemente. E se succede dopo la follia di un negro immigrato, beh, un ghigno di approvazione lo strappi pure al borghese benpensante dei circoli di sinistra.

Quei sudamericani lì, fermati. Ad Ascanio le prime parole del servizio di notte, di un mercoledì notte troppo timido per essere d'estate, uscirono di bocca di fronte al solito spaccio di prodotti sudamericani e sorpresero anche lui per la gravità e l'astio. Chiama rinforzi e scendi con me, manganello alla mano.

(twitter: @agoerre)

Qui il link per leggere la prima puntata

sabato 18 maggio 2013

Milano, 5 omicidi in 5 mesi. Altro che emergenza stranieri

Qualche giorno fa scrissi qui che Pisapia non poteva chiedere l'intervento dell'esercito. Sia per ragioni simboliche, perché significava la fine dell'idea (dell'illusione?) della sua diversità amministrativa, sia per ragioni pratiche, perché non è vero che Milano è insicura. Che cosa si dovrebbe fare in altri, ben più pericolosi territori, come la Locride e i cantieri Expo infiltrati dalla mafia?

Questo bell'articolo de Linkiesta.it ci spiega che cinque omicidi dall'inizio dell'anno a Milano non possono rappresentare un'emergenza.

(@agoerre)

venerdì 17 maggio 2013

Ndrangheta e politica, o si arrestano i colletti bianchi o lasciamo governare la 'ndragheta


Montebello, Siderno, Marina di Gioiosa Jonica, Gioiosa, Melito Porto Salvo, Reggio Calabria, ora San Luca. Il problema non è tanto lo scioglimento per mafia di un consiglio comunale, una consuetudine per questi luoghi, dove la democrazia è sospesa, lo Stato ha sovranità limitata o si infiltra nella criminalità organizzata, come diceva un superprefetto.

Il fatto è che non si interviene quasi mai sul sistema burocratico-amministrativo che fa sedimentare il sottobosco di complicità su cui attecchiscono le organizzazioni criminali. In una parola: si azzera la classe politica, mentre il telaio della macchina municipale rimane impunemente a galla, pronto a riciclarsi fino alla prossima operazione di polizia.

L'immobilismo e la conseguente paralisi amministrativa fa sì che la gran parte dei cittadini che non si schiera sia purtroppo portata a pensare che si stava meglio quando governava la "'ndrangheta".

Parabola significa che a queste condizioni lo scioglimento rischia di diventare un autogol. Basta chiedere al reggino medio, esasperato dalla condizione della raccolta dei rifiuti, se non avesse barattato volentieri una Leonia piena di pluripregiudicati con il centro città sgombro dall'immondizia.

Claudio Careri (twitter: @clacar1977)

giovedì 16 maggio 2013

Racconti da Via Padova / Personaggio Numero Uno

A Jonas piacevano le birre. Se le scolava dalla grande bottiglia verde sullo scalino dello spaccio sudamericano. Con lui gli hermanos. Peruviani come lui. Ma lui, la sua birra dalla grande bottiglia verde, se la beveva in disparte. Non che non volesse stare con gli altri. Li osservava, li salutava. Sorrideva. Ma si teneva a una distanza intermedia, né troppo vicino né troppo lontano. A Jonas piaceva così.

A Jonas non piaceva via Padova. Cioè, non è che non gli piaceva. Ci viveva. Cioè, ci viveva. Ci dormiva, più che altro. Quando non lavorava. A Jonas via Padova non faceva né caldo né freddo. Per i bianchi, per i milanesi, via Padova è via Padova, non una via come le altre. Per lui era la carretera, una semplice carretera del cazzo, con dell'asfalto del cazzo, con delle macchine del cazzo, con dei giardinetti del cazzo. Una via normale. Come tante ad Ate, il suo paese natio del cazzo.

Lo spaccio sudamericano, Dodo (che nome del cazzo), alle dieci di sera chiudeva. Tornatevene a casa, diceva il boss. Qualcuno grugniva, qualcun altro sputava dell'impasto giallastro sul marciapiede, ma poi, tutti, se ne andavano.

Meglio non fare storie. E storie, Jonas, non ne faceva. Soprattutto negli ultimi giorni, dopo che quell'africano del cazzo - vedi perché noi sudamericani odiamo quei negri de mierda e ogni tanto uno degli hermanos li manda in ospedale con un coltello nello stomaco, pensa Jonas - ha fatto fuori tre bianchi milanesi, meglio non dare fastidio. La polizia, quei cabròn della polizia, è molto nervosa, ha voglia di menar le mani. Basta poco, si dice Jonas, e ti ritrovi a succhiare piscio in questura. Meglio non fare storie.

Mierda. Quando li vide Jonas si rigirò tra i denti quell'imprecazione. La bloccò con la lingua, la impastò con la saliva e la sputò. Cazzo, questa non ci voleva.

(@agoerre)

mercoledì 15 maggio 2013

Con l'esercito finisce l'era Pisapia

Giuliano Pisapia, sindaco di Milano, ha chiesto che l'esercito ritorni in città. Per presidiare postazioni fisse, così da liberare poliziotti e carabinieri per le pattuglie cittadine.

Credo che con questa decisione si sia spezzata l'illusione di un sindaco diverso per Milano. Pisapia si è lasciato trascinare sullo stesso campo della destra. Senza nemmeno una pressione popolare di stampo razzista, il quartiere Niguarda è stato molto degno nel chiedere silenzio e non strumentalizzazioni, il sindaco di Sinistra Ecologia e Libertà è ricorso ai metodi di una Letizia Moratti o di un Bobo "la-ndrangheta-a-Milano-non-esiste" Maroni.

E' chiaro che Kabobo, il ghanese che ha ucciso tre persone, è un caso isolato, il suo gesto figlio di un problema psichiatrico. Non c'è, a Milano, nessuna emergenza microcriminalità. Nessun problema di integrazione o di quartieri ghetto. Nessuna ragione alcuna per richiamare l'esercito.

Esercito che non è stato invocato per l'Umbria, dove la 'ndrangheta è ormai dentro i gangli di un'economia allora florida e oggi in crisi.

Esercito che non è stato invocato a Desio o a Solaro o a Trezzano sul Naviglio o sui cantieri di Expo 2015, dove la 'ndrangheta regna e impera.

Esercito che non è stato invocato in Calabria o nella Locride o nella Piana di Gioia Tauro, territorio a sovranità limitata, per lo Stato, e a piena sovranità, per le cosche.


Ma poi, a chi importa della Calabria (e dei suoi giornali)?


Il giornalismo calabrese ricalca i vezzi autoreferenziali, livorosi e settari di quello nazionale. Fin qui è la scoperta dell'acqua calda.

Ieri una vicenda di querele strombazzata candidamente a mezzo stampa, tra il magistrato Alberto Cisterna (ex numero due di Pietro Grasso alla Procura Nazionale Antimafia) e Michele Inserra del Quotidiano della Calabria.

Oggi un tweet criptico di Lirio Abate.



Difficile non cogliere in questi 140 caratteri il riferimento all'immarcescibile Piero Sansonetti, direttore di Calabria Ora. Anche perché, inzigato dai followers, il giornalista dell'Espresso si lascia sfuggire larvate allusioni.

Manca solo ora che qualche giornalista minacci di abbandonare Facebook per troppa notorietà, o per violazione della privacy (non risulta che Twitter sia molto à la page nella terra dei Bruzi). Poi il calco clonato dei peggiori vezzi del giornalismo, che lo rendono sempre più "incredibile" e graffiante verso la realtà, è servito.

Sullo sfondo, in una terra permeata di nonsense, la domanda che si fanno i più.

Ma a chi interessa realmente cosa avviene in Calabria? Esistono delle chiavi di lettura altre del giornalismo investigativo che non agisca sulla scorta delle veline? E ancora le provocazioni permanenti, a lungo andare, a chi giovano se non a un narcisismo egotico, fine a se stesso (come l'abolizione del 41 bis in terra di 'ndrangheta)?

Ahimé, interrogativi destinati a rimanere, non esauditi, che ci porterebbero a riflettere sull'utilità di giornali, siti, insomma dell'informazione nei territori occupati di Calabria in senso stretto, a livello nazionale, ampliando lo sguardo.

Claudio Careri (twitter: @clacar1977)

martedì 14 maggio 2013

Prossima fermata, Italia

Se ne stava lì seduto, appena salito sul vagone della metro che lo portava al lavoro.
L'Italia gli correva di fronte fermata dopo fermata.

Gorla, fermata Gorla.
'Ndrangheta, 7 arresti nel milanese. Fra cui dipendenti e funzionari comunali. Abuso d'ufficio, turbata libertà degli incanti, frode in pubbliche forniture. (ANSA)

Turro, fermata Turro
Brunetta attacca la Boldrini. Doveva difendere di più le donne del Pdl dagli insulti durante la manifestazione di Brescia.

Rovereto, fermata Rovereto
A Brescello arrestato un latitante di 'ndrangheta. (ANSA)

Pasteur, fermata Pasteur
"È in corso un attacco politico contro un leader scelto democraticamente da dieci milioni di italiani". Daniele Capezzone.

Loreto, fermata Loreto
"La Valle d'Aosta è ancora in tempo per combattere la 'ndrangheta. Ma bisogna fare presto". Nicola Gratteri, procuratore antimafia di Reggio Calabria. (La Stampa)

Lima, fermata Lima
"Il fatto che la signora Boccassini abbia detto che tutte le donne che frequentavano Arcore erano delle prostitute significa che mi sono presa della prostituta, perché sono andata decine di volte lì a cena o a pranzo". Daniela Santanché

Porta Venezia, fermata Porta Venezia
Sono ripresi i sopralluoghi sui terreni di Volpiano (Torino) indicati dall'imputato Rosario Marando come il luogo di sepoltura di Antonio e Antonino Stefanelli e Franco Mancuso, esponenti della 'ndrangheta assassinati nel 1997. (ANSA)

Palestro, fermata Palestro
"Se non si ferma l'inquisizione giudiziaria che, da oltre dieci anni, ininterrottamente perseguita il presidente Silvio Berlusconi, l'Italia non ce la farà".

San Babila, fermata San Babila
Ragusa, si dà fuoco per difendere la casa dall'asta giudiziaria, è grave. (ANSA)

Se ne stava lì seduto.
Le due Italie gli correvano di fronte, fermata dopo fermata

lunedì 13 maggio 2013

Mamma li negri

Dopo l'uccisione di due passanti da parte del ghanese Mada Kabobo mi aspettavo un'altra reazione da parte degli italiani. Invece, a parte le solite baggianate leghiste (ché anche per essere razzisti ci vuole acume) e i titoli inutilmente provocatori di Libero, non ci sono state reazioni al grido "Prima gli italiani" (anche negli omicidi, ovviamente), "fuori gli stranieri dall'Italia", "i neri ci hanno rotto".

Gli italiani hanno altro a cui pensare. Nelle nostre città si muore per omicidi molto meno che, per dirne una, negli Stati Uniti. E gli omicidi del ragazzo ghanese sono frutto più di un raptus momentaneo che di un humus culturale ben preciso. Per intenderci, non è stato un gesto di ribellione contro il bianco fomentato dalla comunità degli stranieri a Milano, come può avvenire in qualche quartiere di Parigi. Milano ha reagito bene, tanto che i soliti leghisti sono stati cacciati dal quartiere Niguarda, scenario dell'alba di sangue.

La crisi, ormai lunga più di 5 anni, ha cambiato profondamente la società italiana. Più di quanto si possa pensare. E' una società più cinica, più violenta - come dimostrano le reazioni alla sparatoria di Palazzo Chigi - ma anche più disincantata. In altri tempi, i giornalisti di certa scuola avrebbero trovato terreno fertile per campagne ideologiche di stampo razzista. Ora, indifferenza. Al più, stentata indignazione.

venerdì 10 maggio 2013

Tizian, a cui la 'ndrangheta del Nord voleva spaccare la testa


"Prima di un atteggiamento di omertà, bisogna riscontrare una certa complicità e convenienza da parte degli imprenditori settentrionali a fare affari con la 'ndrangheta. Come spiegare altrimenti il caso della Perego Strade? (azienda infiltrata dalla mafia calabrese n.d.r.)".
Stimolato da Cesare Giuzzi, firma del Corriere della Sera, Giovanni Tizian, alla presentazione del libro La nostra guerra non è mai finita, tocca un tasto centrale nel sistema di potere, che ha consentito alla criminalità organizzata calabrese di mettere solide radici nel tessuto economico-sociale del profondo Nord. E tira in ballo quella connivenza omertosa di cui parla Ilda Boccasini, quando ribadisce a chiare lettere che gli imprenditori non denunciano.
Ha la forza tranquilla di chi vuole portare a termine la sua battaglia, Giovanni, che accenna anche all'importanza del voto non condizionato, in una regione in cui un assessore regionale pagava 20 euro ogni singolo consenso, secondo gli inquirenti: "Non bisogna rinunciare a servirsi del proprio diritto, cederlo significa perdere la dignità", afferma.
Sapessi com'è strano, parlare di 'ndrangheta a Milano. In un momento in cui è più facile voltarsi dall'altra parte, abbassare i toni, non allarmare, rassicurare, Giovanni sciorina concetti basici, ma ficcanti. Qualcuno nelle ultime file bisbiglia: "Ma chi è? Saviano?". Il tam tam di Zero, Zero, Zero non ha lasciato scampo a nessuno.
Ventiquattro anni fa la 'ndrangheta ammazzava a Bovalino Peppe Tizian, bancario, definito "funzionario integerrimo" dagli investigatori. Oggi suo figlio Giovanni è giornalista. Ha cominciato a coltivare nella civilissima Modena la passione per la scrittura ed è costretto a vivere sotto scorta.
In un'intercettazione del 2011 il boss operante in Emilia, con solidi collegamenti con le 'ndrine della Locride, Nicola "Rocco" Femia, al telefono, parlando del cronista della Gazzetta di Modena, minaccia senza mezzi termini: "Se non sta zitto gli sparo in bocca".
Allora il procuratore capo di Bologna - uno dei più accreditati alla successione di Pietro Grasso alla Procura nazionale antimafia - si mosse in prima persona per assicurargli una protezione. Giovanni, usurpato della sua libertà, racconta di essersi trovato in Sicilia e di aver scritto in quel periodo di casalesi, di 'ndrangheta e di Cosa Nostra. Insomma la cosa peggiore in questi casi è non sapere da dove proviene il pericolo.
In prima fila, in questa libreria a Cento Passi dal Duomo, c'è il giudice per le indagini preliminari Giuseppe Gennari del Tribunale di Milano. La platea è composta, anche se a tratti indolente.
Gennari è finito nel mirino della Camera Penale di Milano, udite, udite, in quanto si "si è spinto sino a trattare di vicende processuali ancora pendenti e ancorché definendole tali, le ha fatalmente proposte come verità ormai acquisite". Effettivamente è un problema molto serio, come il legittimo impedimento. Anche il gip ha scritto un libro dal titolo molto eloquente, Le fondamenta della città. Come il Nord Italia ha aperto le porte alla 'ndranagheta, è un ottimo strumento di lavoro e di divulgazione per chi non mastica questi temi.
Dopo un'ora e mezza la sala si svuota celermente, Tizian, invitando alle buone pratiche di antindrangheta militante e di resistenza civile, conclude: "Tra qualche anno non ricorderò più i nomi degli uomini che ora mi privano della mia libertà. Ma nessuno potrà restituirmi mio padre. Il passato è una ferita, ma non brucia più, anzi è diventato uno stimolo per svolgere il più correttamente possibile il mio lavoro".
Quella di Giovanni Tizian è una lezione autenticamente morale, c'è tutta l'austerità di chi non si sente assoluto portatore di una missione salvifica, mancante quindi dei clamori e dei crismi del savianesimo. Ecco perché è da sposare in pieno.
Claudio Careri (@clacar1977)

giovedì 9 maggio 2013

La tirannia dei luoghi comuni

Un Sud ammazzato dai suoi luoghi comuni. La mafia, la lotta alla mafia. Gli eroi, gli antieroi. I briganti, gli sbirri. I signori, i pezzenti. I baroni, i contadini. Il Gattopardo, tutto-cambi-perché-niente-cambi, gli arancini, Tomasi di Lampedusa, Montalbano-sono, l'Aspromonte, Corrado Alvaro, il-giorno-della-civetta. Il sole, il mare, i prodotti tipici, il teatro, i greci nel sangue.

Già, i luoghi comuni. Mi son tornati in mente leggendo il bellissimo libro di Giuseppe Rizzo, "Piccola guerra lampo per radere al suolo la Sicilia", Feltrinelli.

Ma, da trapiantato calabrese a Milano, estenderei il fenomeno di quelle che l'autore definisce le "minchiate", al Nord. Com'era quella? Ah, ecco, il "polo produttivo", la "Milano da bere", "qui la gente si alza al mattino presto per lavorare", "i soldi si fanno al Nord e devono rimanere al Nord".

E' una nazione, la nostra, che sta morendo di luoghi comuni, di frasi fatte, di discorsi pubblici prestampati, di facce ciclostilate.

La faccia di Enrico Letta che, con il candore della democristianità che gli scorre nelle vene, ha detto l'altro giorno in visita a Milano che tranquilli, ci pensa il governo a non permettere le infiltrazioni della 'ndrangheta nei cantieri di Expo 2015. I luoghi comuni della lotta alla mafia. Baggianate. Letta è arrivato buon ultimo. La 'ndrangheta nei cantieri c'è già. E per fermarla bisogna fermare i cantieri, ci vuole tempo, ci si deve metter testa. Peccato che tempo non ce n'è, testa non serve, servono le braccia, ci si deve sbrigare perché sennò addio Expo 2015 ché già ce lo han detto che ce lo tolgono. E quando c'è da far presto, amici, signori, lorsignori, la 'ndrangheta è il miglior partner.

Certo Letta, certo.

@agoerre

Ferrara solo un guitto. Impastato e tanti altri si ribellarono alla mafia

In un paese normale le esternazioni cialtronesche di Giuliano Ferrara sulla mafiosità siciliana verrebbero derubricate come battute di terza categoria di un comico caduto in bassa fortuna, guitterie di basso livello insomma. Qui da noi assumono una rilevanza tale da portare una Twitstar come Enrico Mentana (dopo aver dato la falsa notizia della morte di Fabri Fibra il primo maggio) ad abbandonare il social network (sic), travolto dagli improperi di massa dei trinariciuti e dei nativi della Trinacria. Nell'attesa di capire se supereremo mai questo choc, va detto che l'equazione di @ferrarailgrasso - rinverdita da un ventennio di predicazione leghista - è roba vecchia, un cliché che presume un'inesistente superiorità antropologica italica, smentita da innumerevoli fatti e inchieste giudiziarie. Però l'Elefantino, prima di cavalcare a testa bassa la polemica e di imbarcarsi nell'ennesima provocazione da Cirano arciconformista al contrario, poteva quantomeno chiedere a una delle penne di punta, lo scrittore siculo Pietrangelo Buttafuoco, se tutti i siciliani fossero intimamente mafiosi o contigui a Cosa Nostra. Oppure, poteva tardare e fare il sillogismo proprio nel giorno in cui si commemora il 35esimo anniversario della morte di Peppino Impastato, che pure geneticamente mafioso era, ma ontologicamente ha rifiutato l'etichetta, ribellandosi alla "montagna di merda", pagando a caro prezzo il suo atto sovversivo. Certo, non ci hanno ancora spiegato come sia possibile vivere senza mafie in un paese senza memoria e senza verità, specialmente perché - quando la battaglia contro le organizzazioni criminali poteva essere vinta - le istituzioni (il tanto vituperato Stato, così presente nelle autocommiserazioni vittimistiche di tanta parte di pubblicistica meridionalista) si è ritratto in buon ordine, consentendo alle consorterie di rigenerarsi e di conquistare solidità e potere. Ma in Italia, si sa, il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili. E tutto questo Ferrara finge di non saperlo.

Claudio Careri (twitter @clacar1977)

mercoledì 8 maggio 2013

La mafia fa parte del sud. C'ha ragione Ferrara

C'ha ragione Giuliano Ferrara, c'ha.

Certo, è grosso, grasso, lercio, sudaticcio ed è anche stato una spia, Ferrara. E' spregevole, il più delle volte. Ma quel suo ragionamento, "la mafia è l'essenza della Sicilia come la filologia greca", non solo è condivisibile. Ma è anche estendibile. Alla Calabria, per esempio.

Il giudice Giovanni Falcone, pace all'anima sua, ha colto nel segno quando disse che la mafia è un fenomeno umano e come tale ha un inizio e ha una fine. Ma la mafia è umana nella maniera più radicale, è umana perché culturale, è umana perché essenziale, è umana perché s'attacca alla radice (ecco perché radicale) di una cultura e mangia con essa, beve con essa, vive e respira con essa.

Prima che i siciliani, e con loro i calabresi, piangano e urlino e gridino e denuncino il razzismo di Ferrara lo ammettano. La mafia vi appartiene. Come appartiene ai calabresi. E finiamola qui.